di Roberto Quaglia – Roberto.info
Vi è un giudizio pressoché unanime sul fatto che Avatar rappresenti una pietra miliare nella storia del cinema. La mia opinione è che la novità vada al di là della storia del cinema.
In ballo, ci sono i nostri cervelli, ovvero i modelli mentali nei quali consiste il nostro rapporto con la realtà del mondo. Ed è qui che Avatar indubbiamente rappresenta un punto di svolta assai più importante di quello pur segnato nella storia del cinema.
Insomma, in buona parte è un cartone animato animato (quanta differenza fa il fatto che siano stati attori umani a compiere i movimenti dei personaggi e ad abbozzarne le espressioni?), ma noi stiamo qui a parlarne come se fosse un film vero. Siamo poi sicuri di avere tutte le rotelle a posto?
La novità sta proprio qui: il nostro cervello è sempre meno in grado di distinguere la realtà dalla finzione. E questo è solo l’inizio.
Dobbiamo infatti renderci conto che il miracolo tecnico di Avatar è un miracolo oggi. Nel 2010. E’ solo questione di tempo prima che ulteriori progressi renderanno queste tecniche uno standard diffuso che qualsiasi regista potrà utilizzare a piacimento. E prima o poi ci ritroveremo noi stessi a poter manipolare a tal modo la realtà visiva col nostro computer di casa – o con l’accesso all’immenso potere di calcolo degli sciami di computer in rete.
Si prospetta, insomma, un futuro alquanto allucinatorio per noi e soprattutto per le generazioni che verranno.
La mente umana è molto più elastica di quanto comunemente si creda, e la visione del mondo può variare in misura incredibile a seconda dei luoghi e delle epoche della nostra specie.
Basti pensare al celebre episodio agli albori del cinema: i fratelli Lumiere proiettarono il primo film della storia circa cento anni fa. Consisteva nell’immagine di una locomotiva a vapore che si dirige verso la cinepresa (quindi verso di te, spettatore, che guardi lo schermo). Si narra che il pubblico fuggì in preda al panico, credendo che la locomotiva fosse reale.
La mente umana di allora era uguale a quella di oggi?
Sembrerebbe di no.
Di fronte al segno visivo della locomotiva che si dirigeva verso di loro, l’unica interpretazione che la mente di quelle persone riuscì a darne fu evidentemente quella di una locomotiva reale che rischiava di investirli. E questo nonostante essi sapessero di essere in un locale chiuso e che dietro allo schermo ci fosse un muro e nessun binario. Può anche darsi che l’episodio sia stato esagerato e poi trasformato in leggenda, ma anche in questo caso, è segno del fatto che qualche ansia quel treno immaginario in arrivo deve pure averla suscitata.
In seguito, la mente umana ha imparato a godersi i film con il cosiddetto processo della “sospensione dell’incredulità”. In altre parole, noi sappiamo che ciò che vediamo è fittizio, e siamo quindi sostanzialmente increduli, tuttavia sospendiamo ad arte questa incredulità per la durata del film fingendo tra noi e noi che la vicenda osservata sia reale. E’ solo così che riusciamo a goderci un film, entrare nella vicenda, soffrire e gioire assieme ai personaggi. Quando un film è brutto, il piccolo miracolo della sospensione dell’incredulità non si compie. La vicenda non ci cattura e ci sembra di perdere soltanto il nostro tempo.
La sospensione dell’incredulità ci permette anche di lasciarci dettare gli umori dalle musiche che accompagnano i film, e senza le quali buona parte delle emozioni non ci sarebbero. La prima volta che fecero vedere dei film a certe popolazioni africane dove la modernità non è ancora arrivata, la domanda che tutti fecero è se nel nostro mondo c’è sempre la musica di sottofondo. Se ci pensate, è completamente assurdo che un film che pretende di apparire reale abbia musiche di sottofondo. Ma non ci pensate. Non ci pensiamo. Non ci si pensa. Condividiamo una follia comune ove la presenza di musica in una rappresentazione alla quale assistiamo la rende paradossalmente più reale, anziché irreale come sarebbe più logico. Perché il mondo reale effettivamente non ha proprio nessuna musica di sottofondo. Ci vuole la candida innocenza di un uomo fermo all’età del bronzo per consentirci di accorgercene fuggevolmente.
Per quasi cent’anni, questa sospensione dell’incredulità avveniva nei confronti di film che ad ogni modo mostravano cose reali. Persone vere. Luoghi esistenti. C’erano anche i cartoni animati, che indubbiamente potevano venire apprezzati per ragioni artistiche, ma l’unico pubblico in grado di sospendere la propria incredulità dei confronti di essi era quello dei bambini. Un adulto non dimenticava neppure per un istante che stava guardando un cartone animato.
Tutto ciò ha iniziato a cambiare con l’avvento degli effetti speciali.
Cose che non esistono hanno iniziato ad apparire davanti ai nostri occhi nei cinema, e la nostra mente ha esteso i confini della sospensione dell’incredulità possibile. Tuttavia, a guardare con attenzione critica, l’effetto speciale è spesso riconoscibile in quanto tale. Giochiamo a far finta di credere che un film pieno di effetti speciali sia reale, ma quando vogliamo sappiamo ancora per lo meno distinguere le parti interamente fittizie da quelle solo parzialmente tali.
Con Avatar il problema si complica.
Razionalmente sappiamo che quasi nulla di ciò che vediamo è vero (come nei cartoni animati), ma altre zone assai più profonde ed importanti del nostro cervello (quelle che ci per inciso ci tengono in vita facendoci rapidamente reagire all’ambiente) non vanno tanto per il sottile e credono a ciò che vedono. E’ per questo che guardando Avatar (soprattutto in 3D) abbiamo l’intensa sensazione che tutto sia reale. Lo stato dell’arte della cinematografia ha raggiunto un livello in grado di ingannare parti profonde ed importanti del nostro cervello.
La domanda allora è: Come verrà utilizzato tale magico potere dagli architetti dei nostri sogni futuri ad occhi aperti?
La trama stessa di Avatar ci fornisce qualche indizio a riguardo.
Lo schema della storia è banale e prevedibile in ogni aspetto. C’è chi si è mostrato infastidito da ciò, ma la mia opinione è che se vuoi una bella storia è meglio leggere un buon libro anziché andare a vedere il film con i migliori effetti speciali mai realizzati. In effetti, volendo esagerare potremmo dire che una buona storia rischierebbe di distrarti dagli effetti speciali. In Avatar la storia è “trasparente” – nel senso di quasi invisibile – e tutta l’attenzione si può concentrare sulle atmosfere del film. Una storia che qualche pignolo avrebbe definito “migliore” sarebbe in realtà comunque consistita in un altro stereotipo. Quindi, a che pro?
Il leitmotiv della storia è che terrestri (d’ora in avanti chiamati “i cattivi”) per impadronirsi delle risorse di un pianeta sterminano senza tanti problemi gli indigeni (d’ora in avanti chiamati “i buoni”). Ovviamente alla fine “i buoni” vincono, con l’aiuto dell’umano illuminato di turno e della biosfera amica, con tanta punizione e bua per “i cattivi” (mi scuso con chi non avendo visto il film adesso ritenesse che gli abbia rovinato la sorpresa del finale).
E’ ovviamente una metafora, per nulla velata, di quanto la società di cui noi stessi siamo parte ha fatto in passato (con gli indiani d’America) e continua a fare tutt’ora (con gli iracheni, gli afgani e prossimamente gli iraniani).
Ovviamente il 100% del pubblico si identifica con le povere vittime.
Ovviamente?
Un momento, perché mai questo dovrebbe essere così ovvio?
La società occidentale è fatta di democrazie – così si narra – ed in una democrazia che sia tale si sa che i governi fanno ciò per cui gli elettori hanno dato loro i voti. Ma al di fuori di Avatar, nella nostra realtà reale, noi occidentali abbiamo recentemente invaso militarmente alcune nazioni, bombardandole ed uccidendo collateralmente persone nell’ordine dei milioni (1.300.000 solo che in Iraq, secondo alcune stime).
Questi morti hanno il difetto (o il pregio, a seconda dei punti di vista) di non essere visibili, nell’istante del loro decesso spettacolare, sullo schermo in 3D come gli indigeni di Avatar. Ma il fatto che siano poco visibili non li rende meno morti, anzi! (il famoso detto “chi non muore si rivede” suggerisce che prima dell’invenzione di cinema e televisione la morte in effetti abbassasse alquanto la visibilità di una persona)
I politici che hanno ordinato (o semplicemente avallato, in alcuni paesi d’Europa) questa carneficina sono quelli votati da noi. Dai cittadini occidentali. Cioè la gran maggioranza del pubblico che va a vedere Avatar. E che guardando il film curiosamente non si identifica con i personaggi che fanno ciò che nel mondo reale compiono anche loro – tramite la delega democratica alla propria classe politica. Uccidere persone in paesi lontani. No. Si identificano con le vittime.
Qualcosa apparentemente stona in questo quadretto.
Vi è una palese dissonanza cognitiva.
Ci si identifica con i “buoni” quando si guarda il film, mentre si fa parte del gruppo dei “cattivi” nel mondo reale, sebbene questo ruolo sia interpretato soprappensiero. D’altra parte anche in Avatar alcuni dei “cattivi” procedevano nel loro genocidio soprappensiero. Non sembravano accorgersi bene di ciò che stessero facendo.
Molte persone, leggendo queste righe, opineranno che essi non fanno parte del gruppo dei “cattivi”. Poiché esse sono contrarie alle guerre in Iraq ed Afghanistan. Sono contrarie allo sfruttamento lavorativo di bambini nelle fabbriche delle multinazionali nel terzo mondo (praticamente una riduzione in schiavitù). Sono contrarie a tutte queste brutte cose.
Ma… sono contrarie in che senso?
Forse nel senso che si smette sul serio di votare per i politici che fanno od avallano queste cose deprecabili, e si da la caccia coi forconi, i barili di pece e piume (antiche rustiche tecniche di linciaggio) ai politici che tradiscono le proprie pacifiste promesse elettorali in tal senso?
E soprattutto si è contrari nel senso che si rinuncia effettivamente a godere di tutti i benefici che derivano dal fatto di fare parte dei “cattivi”? Il benessere materiale occidentale sussiste unicamente poiché noi sottraiamo al resto del mondo immense quantità di materie prime beneficiando inoltre del lavoro sottopagato di miliardi di persone. E’ questo furto di risorse unito al moderno “schiavismo dislocato” che paga il nostro benessere.
Mi guardo intorno e non vedo molte persone effettivamente rinunciare a questi vantaggi.
In effetti, non ne ho mai vista neppure una.
Alcuni eventualmente scelgono uno o due vantaggi minori a cui rinunciare, così da potersi raccontare la menzogna di essere più virtuosi degli altri.
Alcuni rinunciano a mangiare da McDonald.
Altri a bere Coca Cola.
Bravi.
Accipicchia, voi sì che siete “buoni”!
Stronzate.
Nessuno, nessuno, nessuno è disposto a rinunciare ai benefici che derivano dal fare parte dei “cattivi”, ma tutti vogliono ugualmente credere in cuor loro di fare parte dei “buoni”.
E’ facile e comodo rinunciare a mangiare cheesburger che comunque non piacciono. Mica scemi! Nessuno rinuncia a ciò che davvero desidera. L’importante è convincersi di far parte dei “buoni” con il minimo dei costi.
Fare parte dei “buoni” è infatti un bene di conforto particolarmente raffinato.
Un gadget mica da poco!
Ci vuole dopotutto un bel po’ di stomaco (oppure palle, scegliete voi) per godersi il benessere sapendosi un “cattivo”. Normalmente, sentire di fare parte dei “cattivi” rovinerebbe buona parte del piacere che deriva dall’essere nati fra la minoranza benestante del mondo. Chi confida in una vita dopo la morte ha anche il problema che a far parte dei “cattivi” poi tipicamente ci si cucca la dannazione eterna anziché una più gradevole beatitudine imperitura in Paradiso.
Questo spiega come mai nella opulenta società occidentale siano necessarie speciali liturgie pagane atte a sgravare le nostre coscienze dal sospetto di non essere poi così “buoni” come ci piace credere di essere.
La gamma di queste liturgie è ampia e ce n’è per tutti i gusti.
C’è chi si prende a cuore il destino degli animali da pelliccia e per sentirsi buono va davanti al teatro dell’opera ad insultare le vecchiette col visone. Anche le comuni giacche di pelle sono fatte con pelle di animali d’allevamento uccisi (rammentiamo che i visoni sono mammiferi d’allevamento esattamente come i buoi che morendo ci fanno omaggio delle giacche di pelle, borsette, portafogli, cinture e scarpe di vero cuoio). Ma chissà perché questi virtuosi vanno sempre ad insultare le vecchiette e mai invece le bande di motociclisti che oltre alla giacca di pelle, hanno di pelle animale anche i pantaloni, e quindi secondo tal logica meriterebbero di venire insultati doppiamente.
Si potrebbero fare decine di esempi, ma questo ci porterebbe fuori tema.
Il fulcro della liturgia consiste in un rituale ove la persona che vuole convincersi di fare parte dei “buoni” soffra per uno o più mali del mondo. Si può scegliere di soffrire per le vittime di una guerra, per i bambini che muoiono di fame, per gli affetti da una malattia di propria scelta, per un animale minacciato di estinzione o per un popolo affetto da genocidio.
Ma la domanda indiscreta è: quanto soffre in verità questa gente così virtuosa?
Credo fossero Fruttero & Lucentini ad avere in passato cercato di quantificare la sofferenza di chi si dia pena per i mali del mondo.
Innanzitutto, per i mali del mondo non si soffre molto mentre si dorme. L’inconscio non ci pensa neppure a soffrire, preferisce sognare. Poi, quando sei sul lavoro è difficile che uno abbia tempo di soffrire per i mali del mondo. Se davvero uno sta lavorando, è facile che abbia altre preoccupazioni. Poi, tre volte al giorno si mangia. Difficile soffrire a pranzo o a cena. Pensare a chi muore di fame a tavola potrebbe fare passare l’appetito. Ecco un altro paio di ore in cui non si soffre. Poi c’è la televisione. Bisogna guardarla almeno qualche ora al giorno, non fosse altro che per poterla disapprovare. Qui al massimo si soffre per la scarsa qualità dei programmi, ed anche la qualità della propria sofferenza ne risente. Ogni tanto poi nella vita si parlerà anche con qualcuno, no? Familiari, amici, ecc. Difficile concentrarsi sui mali del mondo mentre discuti di altre cose. Infine, anche quando uno concentra la propria attenzione su una tragedia che merita tutta la nostra sofferenza, non è che si riesca sempre a soffrire. Al cuore non si comanda. Alcune volte ti ritrovi a fronteggiare sconsolato la tua stessa arida insensibilità. Altre volte riesci finalmente a soffrire un po’, ma poi la mente si adatta, subentra un normale fenomeno di tolleranza al dolore, e tanti saluti alla sofferenza. Arresti il cronometro e scopri che hai sofferto per 3 minuti.
Insomma, alla resa dei conti viene fuori che una persona virtuosa, prontissima a soffrire per uno o più orrori che avvengono nel mondo, per essi in realtà non soffre effettivamente per più di un paio di giorni pieni all’anno. E’ un po’ pochino per millantare una superiore statura morale rispetto alle persone “indifferenti”, “egoiste” e “senza cuore”.
La sofferenza per i mali del mondo è quindi intrinsecamente un’esperienza virtuale, che esiste più in quanto rappresentazione che come realtà.
Per sentirsi schizofrenicamente “buoni” quando in realtà inconsciamente sospettiamo di fare parte dei “cattivi”, dobbiamo sottoporci a rituali di sofferenza virtuale.
Il che ci riporta al tema che qui ci interessa.
La moderna cinematografia, della quale Avatar è l’esempio paradigmatico, assolve a questa moderna esigenza liturgica in modo perfetto e scientifico.
Quando guardiamo Avatar siamo “liberi” di identificarci con le vittime dei massacri che nel mondo reale si compiono a nostro vantaggio. Soffriamo (virtualmente) quando i simpatici alieni blu vengono massacrati. Virtualmente lottiamo assieme ad essi contro i “cattivi” (che poi in effetti saremmo noi) ed infine trionfalmente gioiamo per la vittoria dei “buoni” con i quali ci siamo identificati (che nel mondo reale sono le nostre vittime).
Questa liturgia catartica ci inferisce una potente esperienza illusoria che giustizia sia stata fatta. Si tratta di un’esperienza onirica. Ma la nostra mente funziona in modo onirico quasi per un terzo della nostra vita! Dormire e sognare sono attività indispensabili alla nostre mente per elaborare i nostri modelli della realtà. Quando guardiamo Avatar, ci sottoponiamo ad un’esperienza onirica programmata dal regista e condivisa da tutti gli altri spettatori. Un sogno ad occhi aperti, pur tuttavia un sogno. Un’esperienza onirica di cui abbiamo bisogno per compensare la nostra consapevolezza di partecipare ad un mondo ingiusto. In questo sogno ad occhi aperti programmato, noi siamo le nostre vittime ed in quanto tali lottiamo ed infine perveniamo alla meritata rivincita. Una rivincita delle nostre vittime che beninteso esiste solo nei nostri cervelli. Ma che è sufficiente a farci sentire più buoni.
E’ la nuova tendenza del cinema di Hollywood. Fateci caso. Sono sempre di più i film ove si rappresentino gli orrori della società in cui viviamo, puntualmente risolti con un riscatto finale che nella realtà dei fatti non ci sarà mai.
Matrix, V for Vendetta, the Bourne Trilogy, the Shooter, Children of Men, i film di Michael Moore, tutti questi film e moltissimi altri ci fanno vivere l’esperienza onirica di una ribellione o rivoluzione contro un sistema ingiusto che riconosciamo in quanto tale, e che a parole ci piace eventualmente condannare, per sentirci virtuosi. Qualche ingenuo argomenterà che tali film sono nobili poiché “denunciano le brutture del nostro sistema ” e “risvegliano le coscienze” e tante altre belle parole.
Sarà.
Io di coscienze risvegliate in giro non ne vedo poi molte.
E soprattutto non vedo alcuna differenza nei comportamenti concreti di tutte queste persone con la coscienza “risvegliata”.
Come mai i milioni di spettatori entusiasti di Avatar, all’uscita del cinema non si riversano rabbiosi in massa nelle piazze davanti agli edifici dei governi che essi hanno eletto e che nel mondo reale sono o i diretti responsabili o gli indiretti sostenitori di stermini analoghi in Iraq ed Afghanistan ed altrove?
La risposta è semplice. Perché questi moderni film “di denuncia” e “politically correct” forse risveglieranno anche le coscienze, ma il loro effetto principale è quello di fornire l’esperienza onirica di un atto di giustizia che nella realtà manca. Un’esperienza catartica molto soddisfacente. Rispetto al passato, un indubbio progresso. Nei tempi andati l’unica via per sedare il malcontento popolare era il famigerato processo ai capri espiatori. L’essere umano dopotutto si accontenta di poco, gli basta l’illusione che giustizia sia fatta. Occasionalmente, capita che si debba ricorrere ancor oggi a questa antica pratica. Ma spesso, il processo della catarsi cinematografica è più che sufficiente. Il capro espiatorio è interamente virtuale. E’ il “cattivo” del film. Per assicurarsi che nessuno si identifichi con lui, in Avatar il capo dei “cattivi” è un personaggio al limite del grottesco, scolpito con l’accetta, che chiamare fumettistico è dir poco. Non è il frutto di un cattivo sceneggiatore. E’ una scelta voluta ed intelligente.
Questi film di denuncia, “politically correct”, risvegliano sì le coscienze, ma lo fanno sedandole nel contempo a suon di catarsi gratificanti ottenute con lieti fine immaginari. E risvegliare le coscienze a tal modo – progressivo e con sedazione contestuale – è molto utile, perché l’effetto è il disinnesco del potenziale dirompente che hanno le coscienze non ancora risvegliate. Le rivoluzioni tipicamente scoppiano quando una massa critica di coscienze ingenue si svegliano tutte insieme. Facendo bruciare lentamente la polvere da sparo di una bomba, l’ordigno non scoppia. Sfrigola finché non termina il combustibile. Alla fine ti ritrovi con milioni di persone svegliate, eppur tranquille. Meglio di così non si può. Una volte sveglie, non c’è più il rischio che si risveglino.
Probabilmente chi scrive e produce questi film a queste cose non ci pensa neppure. E’ pensabile che il sistema si sia auto-organizzato così. Il pubblico ha bisogno di esperienze oniriche ove il suo senso di giustizia, a disagio in questo mondo non certo ideale, venga appagato, così che non rompa le palle nella vita di tutti i giorni. Ed è quindi prontissimo a pagare per questi sogni. E Hollywood non se lo fa certo ripetere due volte.
In altre produzioni hollywoodiane la manipolazione è invece chiaramente progettuale ed intenzionale. E’ un tema ben differente, del quale parlo estensivamente nel mio libro “Il Mito dell’11 settembre”, il quale esamina anche le menzogne e le raffinate tecniche con le quali ad esempio si è costruito il mito dell’attacco terroristico dell’11 settembre ad opera degli fondamentalisti islamici.
Avatar quindi marca una nuova tappa verso l’affermazione di un sistema giudiziario onirico esemplare. Affinché la giustizia onirica consegua al meglio le proprie funzioni catartiche, è essenziale che la sospensione dell’incredulità funzioni alla perfezione durante la visione del film. La perfezione tecnica ed artistica di Avatar assolvono perfettamente a questa funzione.
Ovviamente, come sempre avviene, questo è solo l’inizio del futuro.
Non solo la giustizia sarà in futuro amministrata in modalità sempre più onirica, ma anche importanti problemi come i diritti umani possono venire risolti così.
Soprattutto il diritto umano di ognuno di noi di essere un eroe.
Se si guardano i film di Hollywood, è evidente che questo importante diritto umano non è stato rispettato abbastanza. Il problema è che per sentirci vagamente eroici ci tocca identificarci con le maschere di Sylvester Stallone, Schwarzenegger o, se ci va meglio, Bruce Willis o Johnny Depp. Per certi versi è umiliante. Perché dobbiamo fare finta di essere loro? Siamo a tal punto delle merde da non potere essere eroi in quanto noi stessi?
Poiché la soddisfazione di vedere questi film è interamente onirica, tanto vale fare le cose come si deve. Ed il futuro, con i suoi progressi, indubbiamente ce lo renderà possibile.
Ancora una volta, Avatar ci mostra la strada.
E’ importante sottolineare che per realizzare Avatar si è approntata una tecnologia in grado di “avatarizzare” gli attori in tempo reale, mediante computer, così che il regista potesse controllare la riuscita delle scene senza dovere attendere che in seguito qualcuno realizzasse gli effetti speciali.
E’ ovvio che questa sarà la tecnica prevalente del futuro.
Con qualche indispensabile miglioramento.
Cui nella mia veste di umile scrittore di fantascienza, non posso evitare di dare qualche fugace accenno.
Il più importante dei miglioramenti, sarà la facoltà da parte degli spettatori stessi di poter “avatarizzare” a piacimento i personaggi di un film, dando ad essi il volto della persona desiderata. Ovviamente in tempo reale, mentre si guarda il film. Ciò sarà abbastanza facile da realizzare per i film visionati a casa, molto più complesso per quelli visti al cinema (dove i propri desideri sono in conflitto con quelli degli altri spettatori). Tuttavia è solo questione di tempo prima che anche al cinema ciò divenga tecnicamente possibile. Per poterci distinguere dai terroristi in futuro avremo infatti tutti un cip dentro di noi che certificherà la nostra identità, e che in questo caso potrà essere utile a determinare quale flusso di immagini sia destinato esclusivamente a noi.
“Avatarizzare” i personaggi di un film significa ad esempio il poter dare il proprio volto all’eroe del film, oppure alla vittima – dipende dalle inclinazioni di ognuno. Si potrà anche decidere di dare agli altri personaggi i volti delle persone desiderate – così da integrare a piacere parenti, amici e nemici nel film che si vuole guardare. Perché deve essere Bruce Willis ad uccidere un cattivo che a te personalmente non ha fatto nulla, quando nello stesso film potresti essere invece tu a dare al tuo acerrimo nemico ciò che si merita?
Qualcuno si chiederà come farà il tuo televisore (o computer, o parete a cristalli liquidi, o cos’altro si userà in futuro per vedere un film) a sapere che faccia hai tu ed i tuoi amici, così da integrarli nel film?
Sarà elementare. Le tendenza odierna da parte delle nazioni di accumulare dati biometrici sui cittadini per cosiddette ragioni di sicurezza giungerà certamente al punto in cui le autorità provvederanno a scannerizzare tridimensionalmente i corpi e i volti di tutti i cittadini (si può agevolmente fare alla consegna e/o rinnovo di un documento di identità). Dopotutto se uno dovesse mai ammalarsi di terrorismo (in futuro forse si scoprirà che esiste un virus in grado di trasformare qualsiasi cittadino modello in terrorista), alle autorità può fare comodo avere in archivio un modello tridimensionale del soggetto. Può anche venire bene per migliorare la qualità degli eventuali video dove si vede il poveretto compiere gli atti terroristici causati dal virus. I telegiornali hanno sempre bisogno di cose del genere.
Per la legge sulla privacy, naturalmente sarà facoltà del singolo cittadino di scegliere se dare consenso al trattamento del proprio avatar digitale per scopi di intrattenimento. Ma quasi tutti accetteranno. Perché ovviamente, per utilizzare l’avatar digitale di altre persone nel film che si guarda, si dovrà pagare una piccola tassa, parte della quale andrà al soggetto dal quale l’avatar è tratto. Essere antipatico a molte persone sarà quindi fonte di reddito, poiché saranno in parecchi a pagare una piccola tassa pur di potere uccidere tra mille supplizi quella data persona nei film che riempiranno le loro serate. Ma anche essere amati pagherà.
L’avatarizzazione di massa segnerà anche l’inizio di un’era di grande democrazia cinematografica, nel senso che chiunque potrà diventare una star del cinema. Non sarà necessario saper recitare, poiché i movimenti e le espressioni saranno ricavate dagli attori professionisti che hanno prestato i loro corpi per realizzare il film originale.
Credete che io sia andato troppo in là con le fantasticazioni?
Siete in errore.
Sto stringendo le redini della fantasia per evitare di sconvolgervi più del necessario.
In realtà il cinema 2.0 è già online, oggi, nel 2010, in forma embrionale, in uno spot commissionato dal governo svedese per convincere i cittadini a pagare il canone televisivo. Chiunque può inserire la propria immagine nel ruolo del nuovo eroe.
L’ho fatto anch’io, e potete ammirare il risultato sulla seguente pagina web:
http://en.tackfilm.se/?id=1265894904671RA65
Ha avuto un successo strepitoso.
E’ poca cosa in confronto con quello che verrà, serve tuttavia a convincersi che la direzione è quella.
Il cinema 2.0 sarà quindi soprattutto un’era in cui ognuno potrà davvero essere l’eroe dei propri sogni, ed imparare a vivere in letizia con le piccole imperfezioni del mondo reale mediante la purificazione quotidiana a mezzo della grande cinematografia giustizialista onirica che verrà. Attori e spettatori finiranno per mescoleranno in modo inestricabile. La mente umana considererà tutto ciò normale. E la gente farà fatica a credere che un tempo un film potesse non essere dinamico, interattivo e plasmabile secondo i più intimi bisogni di ciascuno.
In un mondo dalla psicologia collettiva trasfigurata da questi nuovi modi di interpretare il reale, anche gli orizzonti della politica si espanderanno in direzioni che oggi ci apparirebbero grottesche. I politici presto scopriranno che gli elettori saranno più inclini a votare per dei loro Avatar idealizzati, anziché per essi come effettivamente sono, e tutti i politici si faranno avatarizzare dagli stilisti di maggior gusto. Fino al giorno in cui qualcuno scoprirà che in effetti non c’è alcuno bisogno di un politico in carne ed ossa, dietro al suo avatar che la gente vota… e che anzi un individuo vero comporta in effetti solo problemi accessori dei quali si può benissimo fare a meno. Sarà l’alba di un nuovo modo di intendere la politica.
Ma l’apogeo di questa evoluzione della politica si avrà quando ad ogni cittadino verrà dato il supporto sensoriale che gli permetta di riconoscere, sia nel candidato che egli vota, che nel vincitore delle elezioni, il proprio stesso Avatar. Sarà il Mondo Nuovo della Democrazia Finale, nel quale ognuno sarà intimamente e schizofrenicamente convinto di governare il mondo, e ciascuno darà eventualmente a se stesso tutta la colpa della propria eventuale oppressione e persecuzione. Un mondo perfetto in cui l’unica possibile rivoluzione sarà… il suicidio del rivoluzionario (o più precisamente: l’auto-assassinio).
Avatar dimostra che oggi più che ieri – e domani più che oggi – è sempre più vero ciò che sentenziò già vari decenni fa McLuhan, il teorico del “Villaggio Globale”.
Il Mezzo è il Messaggio.
E lo sarà sempre di più.
Di più
Di più.
Di più.
PS. Ora c’è anche un gruppo facebook dedicato alla avatarizzazione dei politici italiani:
http://www.facebook.com/group.php?gid=342355539800&ref=mf
Originariamente pubblicato su www.Roberto.info
Roberto Quaglia è il primo italiano nella storia ad avere vinto, con un racconto di fantascienza, al più prestigioso premio britannico del genere, il BSFA Award.
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