di Roberto Quaglia – roberto.info
I posteri ci vorranno perdonare se oggi dilapidiamo qualche minuto a commentare il premio Nobel per la Letteratura, recentemente conferito al cantante Bob Dylan. Infuoca nel mondo la polemica se una canzone possa venire considerata una poesia e via dicendo. Ciò che non cessa di sorprendere me, invece, è che del Nobel si parli, che il Nobel goda di cotanto credito. Da anni infatti io non riesco ad evitare di chiedermi: perché il premio Nobel è così importante? Cos’è che lo rende superiore alla miriade di altri premi che vengono attribuiti in tutto il mondo? Qualcuno potrà ipotizzare che la giuria dei premi Nobel sia la migliore del mondo e che sia questo a determinarne il valore. Ma non è così. E’ un manipolo di accademici svedesi a decidere i premi, e non c’è nessun motivo per il quale gli accademici svedesi dovrebbero essere migliori giudici di quelli di altre nazioni. Il premio Nobel per la Pace invece viene deciso da un gruppetto di norvegesi nominati dal parlamento norvegese, il cui unico merito è quello di essere stati nominati da alcuni politici. Di sicuro non è quindi il valore della giuria a determinate il valore dei premi Nobel. Anche l’origine del premio Nobel non è particolarmente nobile, nonostante il fondatore si chiamasse Nobel. Alfred Nobel, l’inventore della dinamite, quando un giorno si diffuse la falsa notizia della sua morte si ritrovò a leggere il suo coccodrillo su di un giornale francese. Il titolo annunciava: ‘Il mercante di morte è morto. Alfred Nobel, che divenne ricco trovando il modo di uccidere il maggior numero di persone nel modo più veloce possibile.’
Il buon Alfred ci rimase male. E’ così allora che sarebbe passato alla storia, un mostro, e la cosa non gli andò giù. Poiché era ricchissimo, per migliorare la sua immagine avrebbe potuto, come altri ricchi, darsi ad opere di filantropia. Invece gli sembrò molto più astuto dare i suoi soldi in beneficenza soltanto dopo che egli fosse morto, quando di sicuro non gli servivano più. Meglio ancora, dare in beneficenza solo gli interessi sul suo patrimonio, che senza intaccare il capitale avrebbero finanziato il premio indefinitamente. Indubbiamente Alfred Nobel era individuo di spiccato genio. Trovò il modo di comprarsi imperitura fama senza spendere nulla, per lo meno in vita, ed anche in morte, solo gli interessi. L’istituzione del premio Nobel è quindi stata la sua geniale campagna di pubbliche relazioni per i posteri, una campagna brillante e di grande successo. Tuttavia niente di particolarmente nobile, nulla che di per sé possa giustificare la popolarità del premio. E a questo dobbiamo aggiungere anche cose che invece già sconfinano nell’ignobile. Come il fatto che il premio Nobel per l’Economia in realtà non è un Nobel. Sì, lo so, ce lo spacciano per Nobel, ma non è farina del sacco del buon Alfred, qualche furbone a Stoccolma ha ben pensato di usurpare il suo nome per premiare quella categoria di persone che ha trasformato la finanza in un gioco di prestigio.
Insomma, potete cercare motivi quanto volete, ma alla fine vi renderete conto che l’unico e sottolineo l’unico motivo per il quale il Premio Nobel è assurto a così elevato valore simbolico è a causa del fatto che a chi lo vince danno un sacco di soldi. Con la rivalutazione attuale, un milione di euro o giù di lì. E’ solo l’entità del malloppo che ha creato il mito del premio Nobel. La gente ha confuso la quantità di denaro con la quantità di virtù. In un sillogismo di ordinaria abiezione, il premiato più ricco diventa il premiato più intelligente, è solo l’entità del premio che ne fa il miglior premiato del mondo. Dietro la facciata di lusso e smoking si staglia allora un orrore antropologico, un volgare rito tribale sacralizzato dal dio denaro, al di là dei fasti e dei lustrini solo il triste spettacolo di un’umanità che confonde i massimi valori umani con il minimo comune denominatore – quello monetario. Ciò che del premio Nobel può quindi essere interessante non sono tanto i vincitori, quanto eventualmente un’analisi antropologica, sociologica e politica della manifestazione del premio stesso.
Il Nobel per la letteratura a Bob Dylan segna un momento surrealista in un’epopea spesso e volentieri orwelliana. Ci limiteremo a ricordare in tal senso il premio Nobel per la pace a Kissinger proprio nell’anno in cui presumibilmente egli contribuiva al colpo di stato in Cile e quello preventivo ad Obama, che nel discorso di accettazione si produsse in una memorabile apologia della guerra, menzionando la parola “guerra” ben 39 volte. Quello di Obama fu un contributo importante poiché ha ufficializzato lo stato patologico di dissonanza cognitiva in cui versa l’Occidente. A questo quadro di crescente psicosi collettiva il premio a Dylan aggiunge indubbiamente una spassosa nota di colore. Proviamo allora a recitare dei passi di alcune fra le più apprezzate canzoni di Bob Dylan, trattandole però come letteratura, ovvero dei testi che contengano la propria intera bellezza senza che ci debba essere un sottofondo di musica e che possano quindi essere semplicemente letti, e non necessariamente cantati. Iniziamo con la famosissima KNOCKIN’ ON HEAVEN’S DOOR, bellissima come canzone, siamo tutti d’accordo, ora vediamo l’effetto che fa come letteratura o poesia.
Mamma toglimi questo distintivo
non posso più usarlo
si sta facendo scuro, troppo scuro perché io riesca a vedere
mi sembra di bussare alle porte del cielo
Busso busso busso alle porte del cielo
Busso busso busso alle porte del cielo
Busso busso busso alle porte del cielo
Busso busso busso alle porte del cielo
Una breve nota a margine: avrete notato tutte queste ripetizioni. In questo ardito componimento il Premio Nobel per la letteratura ripete la parola “busso” tre volte di fila in una frase e poi ripete quella frase quattro volte. Poiché non stiamo considerando il testo come canzone cantata, bensì come letteratura, sarebbe utile comprendere il motivo logico, estetico, poetico e semantico di tutte queste ripetizioni in rapida successione. L’unica ipotesi che mi viene in mente – magari voi avrete qualche idea migliore – è che si tratti di una forma di letteratura democratica, che voglia tenere nel massimo rispetto i lettori diversamente intelligenti, ripetendo alcune frasi chiavi così che tutti possano capire bene l’elevatissimo concetto. Il prosieguo del testo confermerà la nostra tesi.
Mamma seppellisci le mie pistole nella terra
non posso più sparare
quella lunga nuvola nera sta scendendo
mi sembra di bussare alle porte del cielo
Busso busso busso alle porte del cielo
Busso busso busso alle porte del cielo
Busso busso busso alle porte del cielo
Busso busso busso alle porte del cielo
Eccetera eccetera. Ma chi era Borges al confronto? Infatti Borges non ha mai visto il Nobel. Proviamo un’altra canzone, A HARD RAIN’S A-GONNA FALL, bellissima, bellissima canzone soprattutto quando cantata da Joan Baez. Ma qui, cantare non vale. Allora recitiamo:
Oh, chi hai incontrato, figlio mio diletto ?
Chi hai incontrato, ragazzo mio caro ?
Ho incontrato un bambino accanto ad un pony morto,
ho incontrato un uomo bianco che camminava con un cane nero,
ho incontrato una giovane donna con il corpo in fiamme,
ho incontrato una giovane ragazza che mi ha donato un arcobaleno,
ho incontrato un uomo ferito dall’amore,
ho incontrato un altro uomo ferito dall’odio,
e una dura, e una dura, e una dura, e una dura
e una dura pioggia cadrà.
Eccetera eccetera. Ad un lettore inesperto può sembrare un poemetto da terza media e le ripetizioni finali parrebbero in questo caso un errore di stampa, un copia e incolla difettoso, ma non dobbiamo lasciarci influenzare dalla nostra incompetenza letteraria. Facciamo un terzo tentativo con il componimento forse più famoso di Bob Dylan: BLOWIN’ IN THE WIND.
Quanti anni può esistere una montagna
prima di essere spazzata fino al mare?
Sì, e quanti anni certa gente deve vivere
prima che le sia consentito di essere libera?
Sì, e quante volte un uomo può voltare la testa
fingendo di non vedere?
La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento
Questa era la strofa finale, insomma, quella più profonda e importante dell’opera. E’ bello scoprire che scrivendo cose così, anche senza sapere cantare, anche senza capirci niente di musica, ognuno di noi può vincere un premio Nobel per la letteratura. E’ bello sapere che non c’è bisogno della favolosa Joan Baez, che con la sua voce saprebbe trasformare un nostro muggito in una sinfonia, perché anche noi in futuro si possa vincere il Nobel coi nostri bei pensierini su quanto sarebbe bello un mondo migliore, diligentemente partoriti nelle nostre camerette.
Per la cronaca, pare che qualcuno fra questi accademici giurati svedesi ci sia rimasto male quando Bob Dylan non si sia fatto trovare al telefono quando hanno cercato di notificargli il premio. E per averli ignorati lo hanno insultato e chiamato “arrogante”. Ecco un esemplare caso di psicologia proiettiva – non è arrogante uno che si fa i fatti suoi e non gliene frega niente di te, sei arrogante tu se insisti a pretendere che a lui gliene importi qualcosa delle tue iniziative.
Tutto ciò unito alla realtà dell’insulto rivolto a chi hai appena premiato ci rivela quale sia stata sotto sotto la motivazione reale per il Nobel a Bob Dylan. La giuria ha assegnato il premio al cantante non tanto per premiare lui, quanto per definire – oppure ridefinire – se stessa. Una rinfrescata d’immagine al Premio unita ad una strizzata d’occhio al grande pubblico, un pubblico che non necessariamente legge, però ascolta le canzoni. Portando Dylan sul palco, i riflettori illuminano in realtà la giuria. Non è il Nobel a dare importanza a Dylan, bensì Dylan a dare importanza al Nobel.
A questi accademici offesi per la mancata risposta, peraltro non affatto dovuta, dovremmo forse suggerire che se vogliono udire la risposta di Dylan, telefonargli non è probabilmente la scelta giusta. Che facciano anche loro come Dylan e si mettano ad ascoltare il vento. La risposta è nel vento. The answer is blowing in the wind.
Roberto Quaglia
8 Novembre 2016
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